Franca era una bambina allegra e sorridente.
Nata nel 1940 in una famiglia fortunata: papà Giovanni, detto Valdo, era il veterinario del paese, conosciuto e amato da tutti, ed era anche guida alpina, quindi amante della montagna.
La mamma Laura era una donna forte e bellissima, di quelle distinte ed eleganti che non potevi non notare, soprattutto in quegli anni. Un fratello e una sorella, con cui giocare e litigare… e un grande amore per gli animali e la montagna.
Biondissima, sorriso sempre presente su due labbra che canticchiavano e provavano a duettare con tutto il creato: piante, fiori, uccellini, gatti.
Un’infanzia serena, tante passeggiate sui monti, dove il papà stava costruendo quella che sarebbe diventata la casa di vacanza della famiglia, tutta rigorosamente in legno, lui che il legno lo lavorava alla perfezione e da solo aveva costruito anche un cabinato per navigarci sulle onde del mare.
Infatti, oltre ai monti, Franca amava creare castelli di sabbia in riva al mare e correre a perdifiato sulla battigia, cercando di raggiungere i gabbiani che, puntualmente, spiccavano il volo mentre lei era a un palmo da loro.
Poi la scuola, le pagelle non proprio da studentessa modello, ma tanta vita vissuta e goduta in mezzo agli animali e alla natura.
E lo studio non si è mai interrotto perché Franca aveva un sogno: la ginnastica. E nonostante fosse innamorata e avesse un fidanzato, non ha esitato un attimo quando si è trattato di andare a studiare educazione fisica all’ISEF di Milano. Era una ragazza emancipata che non avrebbe mai rinunciato ai suoi sogni. Così l’aveva educata la sua mamma e, di suo, era uno spirito libero e impossibile da contrastare.
Gli anni dell’università le hanno dato grandi soddisfazioni, ne è tornata con un titolo che le ha permesso di fare il lavoro che sognava: insegnare ai ragazzi come muovere armoniosamente il corpo tra quadri inglesi, cavalline, ostacoli da saltare.
Insieme al lavoro era riuscita a coltivare anche il suo amore, si era sposata e aveva avuto due bimbi bellissimi, perché lei era proprio bella oltre che una donna di carattere: occhi azzurri, sorriso smagliante, capelli biondi mossi. Era una persona solare che metteva di buonumore chiunque la incontrasse.
E i suoi bambini erano sorridenti come lei. Soprattutto Chiara le somigliava come una goccia d’acqua: guardando foto di madre e figlia alla stessa età era impossibile distinguerle.
Chiara, come Franca, e come tutte le donne della famiglia (la nonna si chiamava Laura), aveva un nome importante.
In effetti Franca, di origine tedesca, significa ‘libera’, mentre Chiara deriva dal latino clarus e significa ‘lucente, luminosa, splendente’. Laura, sempre di origine latina, significa ‘cinta d’alloro’. Come dire, tre donne con nomi che la dicevano lunga su chi li portava!
Chiara aveva ereditato la parlantina della mamma e si racconta che volesse sempre avere l’ultima parola, solo che Chiara aveva tre anni e Franca trentasei!
Esattamente trentatré anni di differenza tra loro, tutto un gioco di tre… peccato che il gioco si sia fermato lì perché Franca, a trentasette anni compiuti da poco, è uscita una mattina per non tornare mai più…
E Chiara, con i suoi tre anni e la sua lingua lunga, ha conosciuto la perdita peggiore che si possa augurare a una bimba della sua età.
“Ciao mamma, buona giornata, stasera facciamo un disegno insieme?”, “Sì, amore, tu però fai la brava all’asilo e mangia tutte le verdure, d’accordo?”.
Saranno state queste le ultime parole della sua mamma mentre le stampava un bacio sulla fronte, come ogni mattina? Poco importa, perché lei proprio non le ricorda e non le ricorderà mai, come non ricorderà mai nulla di quella bellissima donna perché – e questa è un’ingiustizia che difficilmente si riesce ad accettare – a tre anni i ricordi non si fissano nella memoria, mentre i traumi si fissano perfettamente nella psiche di chi li vive.
Quindi, nessun ricordo bello, ma un trauma che ti accompagnerà per tutta la vita!
Far pace con questa realtà è durissima.
Quando poi, dopo giorni di assenza, il papà torna a casa una sera, tristissimo – anche se finge di non esserlo – e sentenzia: “Mamma è volata in cielo, gli angeli avevano bisogno di lei, ci vuole tanto bene e starà sempre accanto a noi da lassù. Non dobbiamo piangere per lei. Non si piangerà più in questa casa”.
“Scusa, papi, cos’hai detto? Mamma non verrà più da noi? Non verrà più da noi? Perché? Perché vuole stare con gli angeli e non con noi?” E così via, perché non ricordando nulla si può solo immaginare… Le parole non sono rilevanti, lo è invece il senso di vuoto che si crea, quel vuoto che scava dentro fino a formare un abisso in Chiara, un abisso dal quale farà fatica a riemergere.
Un abisso che la farà vivere all’insegna del senso di colpa e del suo contrappasso, il senso del dovere, perché se sei stata talmente cattiva da far andare via la mamma, allora devi essere bravissima onde evitare che se ne vada qualcun altro. Devi imparare a capire le esigenze delle persone che ami prima ancora che le esprimano, così nessuno si arrabbierà, nessuno ti abbandonerà di nuovo. In fondo sai di essere stata cattiva, volevi avere l’ultima parola con mamma… e lei ti ha lasciata.
Tanto ‘materiale’ per i miei psicoterapeuti, tanto lavoro fatto su di me nel corso degli anni.
Oggi sono qui, sono una persona serena, che si vuole bene e ama la vita. Ho realizzato il mio sogno di vivere in una baita nel bosco, in mezzo alla natura, quindi il lavoro fatto non è stato vano.
E anche se ci sono dolori che non passano… tirandoli fuori e dando loro voce è possibile trasformarli in qualcosa di bello.
Questo è il grande potere della scrittura, questa è la grande magia delle parole.